Due capolavori inediti
Nel primo dei due dipinti, tuttora inediti, due figure maschili seminude siedono in primo piano sulla riva di un’insenatura marina e un’altra figura manovra una sottile imbarcazione carica di bagagli. Al centro della scena, sotto una rupe sormontata da una torre in rovina, due pescatori ritirano le reti. Sulla rupe si intravvedono alcuni edifici che si stagliano contro un cielo azzurro percorso da nubi; all’orizzonte compare la parvenza di un’altra torre. La scena è incorniciata da due gruppi di alberi dalle fronde movimentate e scomposte. Nel secondo dipinto in primo piano due figure maschili a sinistra e due frati a destra osservano dalla riva il naufragio di un vascello che si è schiantato contro la rupe al centro della scena. Sulla rupe si erge una torre; all’orizzonte a sinistra si intravvedono alcuni edifici, a destra della rupe il mare è percorso da vele inclinate dal vento. Anche in questa tela il cielo azzurro è solcato da nubi e la scena è incorniciata da alberi.
I due dipinti sono connotati dalle stesse misure e dai medesimi caratteri stilistici e iconografici e furono eseguiti come pendants; la scrittura pittorica delle figure, degli oggetti e del paesaggio è quella tipica di Alessandro Magnasco, sia nei percorsi della pennellata che nell’intavolazione cromatica, che si basa sulle tonalità dei marroni e dei verdastri, con tocchi di filamenti luminosi che animano le onde marine ed evidenziano gli oggetti. Il cielo percorso da nubi è di un azzurro intenso che – come sappiamo dalle analisi dei pigmenti effettuate anni fa su alcuni dipinti certi dell’artista – è realizzato con il blu di Prussia, il primo colore chimico usato nella pittura europea, nella prima metà del Settecento conosciuto in Italia soltanto dai veneziani e dal Magnasco. I rapporti del pittore genovese con Venezia, attestati dal suo biografo Carlo Giuseppe Ratti, spiegano l’aggiornamento tecnico dell’artista relativo a questo pigmento, realizzato in Germania nel 1704.
Se l’attribuzione al Magnasco delle figure umane nei due dipinti appare indubitabile, un maggior approfondimento è necessario per l’attribuzione all’artista anche dell’ambientazione paesistica. Basandosi sulla scrittura pittorica che caratterizza le figure, le due tele si possono infatti collocare negli anni 1726 – 1728 quando, dopo la morte nel 1724 di Antonio Francesco Peruzzini, il paesaggista col quale il Magnasco collaborò per circa trent’anni, l’artista genovese realizzò anche i paesaggi in uno stile chiaramente peruzziniano, appreso da Antonio Francesco che, più anziano di lui, gli fu accanto in numerosissime opere. Ma i caratteri della pittura del Peruzzini – descrizione minutissima delle fronde arboree e del sottobosco e nuvole volumetriche memori di quelle del Tempesta – non sono presenti in queste due tele, dove cespugli e fronde sono rappresentate sommariamente a colpi di pennello, le nubi si stracciano in tocchi svirgolati e grumosi e le onde marine sono velocissimi guizzi e filamenti di luce, caratteri tipici del Magnasco. Qui il Magnasco adotta le tipologie paesistiche del Peruzzini per svilupparne pittoricamente il linguaggio in direzione di una totale disgregazione del dato descrittivo in rapida annotazione luminosa. Negli estremi sviluppi del discorso dell’artista (il Sant’Agostino di Palazzo Bianco a Genova, il Battesimo di Cristo della National Gallery di Washington databili intorno al 1740) la libertà assoluta della pennellata supererà il carattere tipicamente decorativo del “genere” nell’espressione di un’intensità emotiva assai lontana dalle intenzioni rasserenanti dei “paesi” e delle “marine” della pittura settecentesca contemporanea.
I due dipinti che qui si presentano sono certamente fra le prove più spettacolari e virtuosistiche del Magnasco nel “genere” delle “marine”. L’altissima qualità pittorica e la struttura compositiva di grande effetto scenografico ne fanno due capolavori della sua maturità. In contrasto con i sereni “paesi” arcadici, nitidamente disegnati, di molti pittori contemporanei come il genovese Carlo Antonio Tavella, il Magnasco rappresenta due paesaggi ventosi drammaticamente sconvolti, abitati da figure disarticolate in movimenti dal ritmo convulso, negando alle forme ogni consistenza volumetrica e ogni definizione disegnativa, con un colore livido e spento che si schiarisce soltanto nell’intenso azzurro del cielo e nella luminosità delle nuvole. Anche nei suoi numerosi Paesaggi con figure, così come nelle scene sacre e nelle rappresentazioni mitologiche ambientate fra le architetture in rovina di Clemente Spera, l’artista esprime il suo anticonformismo rifiutando la facile piacevolezza e il linguaggio edonistico di questi “generi” tradizionalmente caratterizzati da un rassicurante decorativismo.
di Fausta Franchini Guelfi